Notizie, Sentenze, Articoli - Avvocato Penalista Trapani

Sentenza

Usa minaccia ai Carabinieri di San Giuseppe Vesuviano.-
Usa minaccia ai Carabinieri di San Giuseppe Vesuviano.-
Tribunale Nola, Sent., 13-05-2019
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI NOLA

Il GOP del Tribunale, dott.ssa Raffaella Lupo alla pubblica udienza del 25.2.2019 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei confronti di:

B.H., nato in M. l'(...) e domiciliato in S. G. V. alla Via M. n.247;

LIBERO-ASSENTE

Difeso di fiducia dall'avv. Clara Casillo

IMPUTATO

(V. foglio allegato)
Svolgimento del processo

Con decreto di citazione diretta a giudizio dell'8.5.2017, emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Nola, B.H. veniva tratto a giudizio dinanzi a questo Tribunale per rispondere dei reati in epigrafe trascritti.

L'udienza del 20.11.2017 veniva rinviata a causa della mancati notifica del decreto di citazione all'imputato.

All'udienza del 9.4.18 il Tribunale, dichiarata l'assenza dell'imputato regolarmente citato e non comparso senza addurre alcuna giustificazione, rinviava il processo a causa dell'astensione degli avvocati dalle udienze, previa sospensione dei termini di prescrizione.

All'udienza del 7.1.19, dichiarato aperto il dibattimento, le parti formulavano le proprie richieste istruttorie e veniva escusso il teste S.L.; le parti concordemente rinunciavano all'escussione del teste C. ritenendo invece opportuno escutere il teste C., non presente.

All'odierna udienza, escusso l'ultimo teste del PM, dichiarata chiusa l'istruttoria dibattimentale, il giudice invitava le parti a formulare ed illustrare le proprie conclusioni, udite le quali, all'esito della deliberazione avvenuta in camera di consiglio, rendeva pubblica la sentenza dando lettura del dispositivo e riservandosi il deposito della motivazione in giorni novanta.
Motivi della decisione

All'odierno imputato vengono contestati due reati.

In relazione al capo a) dell'imputazione a B.H. viene contestato il reato di cui all'art. 336 c.p., per aver usato minaccia nei confronti del Mar. Ord. S. e dell'App. C., entrambi in servizio presso la stazione Carabinieri di San Giuseppe Vesuviano, al fine di costringerli ad omettere atti d'ufficio, consistenti nel richiedere le sue generalità.

In ordine a tale imputazione ritiene il giudice die l'istruttoria dibattimentale abbia consentito di acclarare in modo sufficientemente univoco la fondatezza della prospettazione accusatoria e, dunque, la penale responsabilità dell'imputato in ordine a tale reato ascrittogli in rubrica.

Ed invero, durante l'istruttoria dibattimentale veniva escusso il teste S. che descriveva la dinamica dei latti ricordando che in data 21.8.16, mentre era di pattuglia con l'App. C., veniva contattato dal militare in servizio presso la caserma, il quale richiedeva il loro intervento poiché un cittadino extracomunitario voleva entrare a tutti i costi nell'edificio, minacciando anche di scavalcare la recinzione.

Giunti sul posto, effettivamente riscontravano la presenza di un giovane, poi identificato nell'imputato, che, in evidente stato di alterazione alcolica, insisteva per entrare minacciando che, in caso contrario, avrebbe denunciato tutti. Alla richiesta dei militari di spiegale il motivo della sua presenza e le sue generalità, il B. si infuriava ancor di più iniziando a dare colpi sul cofano dell'auto di servizio, cercando anche di aprirne lo sportello.

Nella medesima circostanza proferiva urlando, all'indirizzo dei due militari intervenuti, espressioni come "io sono più napoletano di voi... ve la faccio pagane...vi faccio venire la gente di Ponticelli...vi faccio fare del male", contemporaneamente su buttava sull'asfalto per fingere di essere stato malmenato e dicendo "dirò che mi avete picchiato così vi faccio passare i guai...io sono furbo... voi siete scemi".

Il soggetto veniva poi bloccato e portato in caserma ove continuava a minacciarli con frasi dello stesso tenore delle precedenti e con epiteti offensivi (scemi, coglioni). In caserma, però, l'imputato, recuperata un po' di calma, forniva le proprie generalità e consentiva la sua identificazione, confermata anche attraverso il contatto online con il comune di appartenenza.

L'odierno giudicabile, quindi, aveva opposto resistenza per impedire la propria identificazione.

Le circostanze così come descritte venivano confermate dall'escussione del teste C., militare presente in caserma che aveva avuto l'iniziale contatto con l'odierno imputato e che aveva richiesto l'intervento dei colleghi.

Sulla base di codesta ricostruzione dei fatti, che è emersa dall'esame dei testi escussi - della cui attendibilità non vi è ragione di dubitare alla luce della verosimiglianza e pacatezza delle loro dichiarazioni e della qualifica di p.u. dagli stessi rivestita, deve ritenersi provata la penale responsabilità dell'odierno imputato per il reato allo stesso ascritto in rubrica.

Ebbene è evidente, per le stesse circostanze e modalità dei fatti, che l'atteggiamento assunto dal B. in tale occasione era sostanzialmente finalizzato ad indurre i Carabinieri, che rivestivano la qualifica di pubblici ufficiali e della quale costui era di certo pienamente consapevole, ad omettere un atto d'ufficio, consistente nella sua identificazione.

Pertanto la condotta tenuta dall'odierno imputato integra senza alcun dubbio, sotto il profilo oggettivo, gli estremi del reato contestato, del quale pertanto deve ritenersi pienamente responsabile.

L'art. 336 c.p. ("Violenza o minaccia a pubblico ufficiale") contempla due distinte ipotesi di reato, incriminandosi, nel I comma, contestato all'odierno giudicabile, il fatto di chi "usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell'ufficio o servizio" e, nel 2 co., sanzionandosi, con pena notevolmente interiore, la medesima condotta, attuata però per costringere il pubblico agente "a compiere un atto del proprio ufficio o servizio" o "per influire, comunque" su di essi.

Nel caso di specie la condotta del B. è consistita nell'uso di improperi e della minaccia specifica rivolta ai due soggetti passivi, estrinsecante si nel paventare loro di simulare un'aggressione strumentale ad una falsa denunzia e nel minacciarli apertamente di fargli fare del male da parte di persone poco raccomandabili.

La minaccia prospettata dall'imputato determinata, specifica e grave appare - a parere di chi scrive - assolutamente idonea a turbare il pubblico ufficiale nell'assolvimento dei suoi compiti istituzionali..

Nessun dubbio poi circa la ricorrenza in capo all'imputato del dolo richiesto dalla norma.

Il delitto per cui si procede è fattispecie a consumazione anticipata, nel senso che si integra con l'attuazione della condotta tipica, di violenza o minaccia, indipendentemente dal verificarsi dell'effetto costrittivo o oppositivo perseguito dall'agente.

Sussiste da parte del prevenuto la piena coscienza e volontà di usare minaccia ai p.u., essendo peraltro perfettamente a conoscenza delle relative qualifiche giacché i due carabinieri, al momento dell'intervento, indossavano la divisa e si trovavano all'interno della caserma.

A parere di questo giudice, quindi, appare senza dubbio provata la sua responsabilità penale per il reato p. e p. dall'art. 336 c.p..

In relazione al capo b) dell'imputazione a B.H. viene contestato il reato di cui all'art. 341 bis c.p., perché in luogo pubblico ed alla presenza di più persone, ledeva l'onore ed il prestigio dei militari intervenuti proferendo nei loro confronti espressioni offensive.

Anche in tale caso ritiene questo giudice che l'istruttoria dibattimentale abbia confermato l'impianto accusatorio.

Durante l'istruttoria dibattimentale i testi S. e C. dichiaravano che il fatto oggetto di contestazione era avvenuto prima all'esterno della caserma, sulla pubblica via, e poi all'interno, e che via avevano assistito anche altre persone non coinvolte come il C. o il Sannino.

Non si può dubitare che le parole pronunziate dall'odierno giudicabile, la cui portata offensiva è palese, siano state pronunziate "in presenza di più persone" o meglio siano giunte alla percezione rii soggetti diversi dai due Carabinieri.

Il corollario di tale situazione è che può dirsi provata la sussistenza del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale a carico del B., la cui configurabilità presuppone proprio che il soggetto offenda l'onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto di ufficio ed a causa o nell'esercizio delle sue funzioni purché in un luogo pubblico o aperto al pubblico ed alla presenza di più persone.

In punto di diritto può essere ricordato che il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, così come reintrodotto dalla L. n. 94 del 2009 (c.d. "pacchetto sicurezza") è caratterizzato da un'azione consistente nell'offesa dell'onore e della reputazione della vittima qualificata.

In più sono necessari ulteriori requisiti oggettivi, prima non richiesti: è necessario che l'offesa all'onore e al prestigio del pubblico ufficiale avvenga alla presenza di più persone, sia realizzata in luogo pubblico o aperto al pubblico, e accada in un momento, in cui il pubblico ufficiale compia un atto d'ufficio (a causa o nell'esercizio delle sue funzioni).

La legge, quindi, non punisce la semplice lesione, in sé, dell'onore e della reputazione del pubblico ufficiale, ma la conoscenza di tale violazione da parte di più persone presenti al momento dell'azione, da compiersi quindi in un luogo pubblico, nello stesso momento in cui avviene il compimento dell'atto dell'ufficio ed a causa o nell'esercizio della funzione pubblica (Cass. n. 15367/2014).

In sintesi, è punita l'offesa al pubblico ufficiale, ma a condizione che essa venga percepita da più persone proprio nel momento in cui il pubblico ufficiale sta compiendo il proprio dovere d'ufficio.

Il bene giuridico protetto dall'ordinamento con tale disposizione è la salvaguardia, attraverso la tutela dell'onore e del decoro della persona che agisce quale organo dell'amministrazione in quanto investita di funzioni pubbliche, della stessa P.A., dalle offese al prestigio e all'onore rese ancora più gravi dalla potenziale maggiore diffusione poiché realizzate in presenza di più persone in un luogo pubblico o aperto al pubblico.

A differenza della previgente disciplina, quindi, il nuovo reato di oltraggio a pubblico ufficiale prevede, inoltre, che la condotta per rivelarsi lesiva debba essere offensiva non già in via disgiunta, ma cumulativa sia dell'onore che del prestigio del pubblico ufficiale nell'esercizio o a causa delle funzioni dallo stesso svolte, con la conseguenza che non saranno punibili le mere lesioni "in sé dell'onore e della reputazione del pubblico ufficiale" ma soltanto "la conoscenza di tale violazione da parte di un contesto soggettivo allargato a più persone presenti al momento dell'azione, da compiersi in un ambito spaziale specificato come luogo pubblico o aperto al pubblico e in contestualità con il compimento dell'atto dell'ufficio ed a causa o nell'esercizio della funzione pubblica" (Cass. n. 15367/2014).

In altre parole, il legislatore "incrimina comportamenti ritenuti pregiudizievoli del bene protetto, a condizione della diffusione della percezione dell'offesa, del collegamento temporale e finalistico con l'esercizio della potestà pubblica e della possibile interferenza perturbatrice col suo espletamento" (Cass. n. 15367/2014).

Alla luce di quanto appena esposto appare alquanto indubbio che il B., al momento del compimento del fatto, oggetto di imputazione, abbia utilizzato un tono di voce tanto elevato da essere facilmente udito dagli altri militari presenti.

Sulla base di questi rilievi, attesa la palese sufficienza degli elementi di prova, l'imputato va dunque dichiarato colpevole anche per il reato a lui ascritto al capo b) della rubrica.

Venendo al trattamento sanzionatorio, le concrete modalità e circostanze dei fatti denotano che i predetti reati rientravano nell'ambito del medesimo disegno criminoso e pertanto vanno riuniti sotto il vincolo della continuazione.

Non vi sono motivi per concedere le circostanze attenuanti generiche.

Queste, introdotte per consentire soltanto una migliore individualizzazione della pena, non devono trasformarsi in uno strumento improprio per mitigare il rigore delle sanzioni, butto che è stato necessario un intervento del legislatore che ha imposto, per legge, dei limiti alla concessione delle generiche. Le stesse per la loro atipicità possono soltanto consentire al giudice di valutare elementi di fatto particolarmente significativi, sia di natura oggettiva che soggettiva, capaci di far risaltare il valore positivo del fatto, elementi positivi che non sono assolutamente rilevabili nel presente processo sia in considerazione delle modalità della condotta particolarmente gravi, del comportamento poco collaborativo assunto, non avendo l'imputato dato alcun segnale di resipiscenza, sia alla luce della negativa personalità del B. che della recidiva specifica correttamente contestata, così come evincibile dal casellario giudiziario in atti.

Pertanto, questo giudice ritiene di dover operare l'aumento della pena per la sussistente recidiva specifica, oltre che operare un ulteriore aumento per la continuazione tra i reati ascritti al prevenuto.

Circa i canoni di valutazione della sussistenza della recidiva, la giurisprudenza più recente espressamente dice che si deve trattare di una ricaduta che sotto il profilo sintomatico denuncia una "più accentuata, colpevolezza e maggiore pericolosità del reo". E a questo giudizio, il giudice deve pervenire dopo aver fatto una verifica"della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell'eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali"(Cass. S.U. n. 35378 del 27.05.2010).

Tanto premesso, nella specie può certamente applicarsi l'aumento per il regime della recidiva.

Pertanto, valutati tutti i criteri cui all'art. 133 c.p., considerato il vincolo della continuazione, riconosciuta la recidiva e negate le attenuanti generiche, pare congruo condannare il B.H. alla pena di mesi dieci di reclusione.

Alla condanna nel merito segue, per legge, quella al pagamento delle spese processuali.

Ricorrono, nel caso di specie, i presupposti di legge, ai sensi degli artt. 163 e ss. c.p., per concedere all'imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena, avendone già goduto in relazione alla condanna riportata antecedentemente.

In considerazione della complessità delle questioni affrontate, questo Giudice si riserva il deposito dei motivi in giorni novanta.
P.Q.M.

Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara B.H. colpevole dei reati allo stesso ascritti uniti dal vincolo della continuazione e, ritenuto più grave il reato di cui al capo a), riconosciuta la contestata recidiva, lo condanna alla pena di mesi dieci di reclusione, nonché al pagamento delle spese processuali.

Concede il beneficio della sospensione condizionale della pena.

Letto l'art. 544 comma 3^ c.p.p., indica in giorni 90 il termine per il deposito della motivazione.

Così deciso in Nola, il 25 febbraio 2019.

Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2019.
Avv. Antonino Sugamele

Richiedi una Consulenza